Manhattan Transfer, Jazzarìa, Reggia di Venaria Reale
5 luglio 2023, pubblicato su Mescalina
Immersi in un giardino meraviglioso, con la Reggia di Venaria a fare da quinta e sfondo, sul palco del neonato festival Jazzarìa salgono i Manhattan Transfer. Il loro set conclude la due giorni aperta ieri da Kurt Elling. Un uno-due sulla vocalità jazz americana dalla coerenza programmatica invidiabile. Fin dai primi istanti ci si accorge che le voci degli attempati artisti sul palco non fanno rimpiangere quelle dei dischi. Sembra che per loro il tempo si sia fermato. Potenza dell’arte e dello spettacolo: i membri originali del gruppo sono due su quattro e Tim Hauser, lo storico fondatore, è mancato alcuni anni fa; eppure la formula è magica e si sprigiona ogni sera. Il tour è un auto-omaggio ai cinquant’anni di attività e lo spettacolo ripercorre tutte le tappe di questo viaggio nella musica nera americana, riletto con le lenti del vocalese (quello stile di canto jazz dove gli assoli vengono riprodotti dalla voce con versi appositamente scritti). Un sottogenere, quello del vocalese, di cui i Manhattan sono stati protagonisti assoluti per ben cinque decadi. Eredi di una formula ideata dal trio Lambert, Hendricks & Ross, i quattro hanno avuto fortuna commerciale e quando il sound del gruppo spalla vira al pop brasileiro e i nostri intonano Soul Food To Go sicuramente una parte del pubblico ripiomba nel lato buono degli anni Ottanta e scende una lacrimuccia. C’è una buona dose di auto-celebrazione, certo, e tutti noi siamo lì anche per quello, ma il concerto è dominato dall’omaggio al jazz in tutte le sue forme, a partire dalla swing machine per eccellenza, l’orchestra di Count Basie e dopo si batte il piede su Four Brothers, un brano veloce che ci porta nel mood dell’orchestra di Woody Herman del 1947, quello dominata da una stellare sax section comprendente “i quattro fratelli” Stan Getz, Zoot Sims, Herbie Stewart e Serge Chaloff e poi si va ancora più indietro alle radici del suono per big band con Fletcher Henderson. Tutto arrangiato e suonato superbamente, con amore e senso della tradizione jazz. Java Jive omaggia un altro gruppo vocale, gli Ink Spot e qui siamo in un bel bianco e nero anni Quaranta. Segue un salto in avanti al funk-jazz degli anni Sessanta Settanta con Herbie Hancock e la bruciante tromba di Lee Morgan con l’assolo di Sidewinder duplicato dalla voce di Janis Siegel. E’ facile così, quando per la scaletta si può pescare da un repertorio costruito in una carriera discografica di oltre cinquant’anni. Route 66 abbandona il jazz per flirtare con il doo-wop, ma è solo una parentesi.
Si arriva al finale giustamente dedicato a Birdland e al loro incontro con i Weather Report. La canzone è un crescendo sul quale è difficile restare seduti, il testo racconta la storia del noto locale jazz newyorkese e mentre la macchina ritmica cucina il suo groove le voci evocano una cascata di nomi: Bird, Max, Miles, Trane, Cannonball, Basie, Blakey…Il gotha del jazz e di una New York anni Cinquanta entrata nell’immaginario collettivo. Come aveva anche ricordato Gino Castaldo a inizio serata introducendo il concerto, il nome del gruppo venne rubato a un romanzo di John Dos Passos del 1925 che raccontava la metropoli durante l’età del jazz. Nel frattempo i quattro terminano Birdland e concerto, tra applausi e pubblico in piedi. Molti, immagino, hanno mentalmente rivisto lo spot di Amaro Ramazzotti, “Una Milano da bere” dove tutto in città si muoveva al ritmo del brano dei Weather Report. Sta partendo un pericoloso effetto nostalgia che si staglia su una Reggia splendida in versione notturna con luna ma i nostri frizzanti eroi immediatamente spazzano via ogni rischio di commozione finale con il sorriso, facendoci cantare in coro come bis Tequila.