Hans Janowitz, Romanzo in jazz, Robin Edizioni, 2020.
Spesso si sostiene che l’Europa è arrivata prima dell’America nel considerare il jazz una materia degna di studio, come dimostrano i precoci saggi dello svizzero Ernest Ansermet (del 1919), o i libri del belga Robert Goffin (1932) e del francese Hugues Panassié (1934), ma anche in letteratura si potrebbe sostenere che gli scrittori del vecchio continente sono stati i primi a trasferire sulla pagina i fermenti della nuova musica. Pur non dimenticando che Francis Scott Fitzgerald ha dato alle stampe i suoi celebri Racconti dell’Età del jazz nel 1922, riuscendo così addirittura a determinare il “nome” e l’esprit di un intero decennio, va al boemo Hans Janowitz il primato di aver intitolato, nel 1927, Jazz un intero romanzo che ha nel titolo, nella modalità sincopata della scrittura e in alcuni protagonisti (i musicisti di una sgangherata band), tre solidi agganci con la musica afroamericana. Il romanzo si muove frenetico tra Londra e Parigi rimescolando le carte del classico romanzo d’avventura con quelle del giallo all’inglese e con le mille suggestioni intellettuali e artistiche della colta, frizzante e scandalosa Berlino di Weimar. Janowitz in quel momento ha già prodotto il suo lavoro più famoso, essendo l’autore con il drammaturgo Carl Mayer, della sceneggiatura del Gabinetto del dottor Caligari (1920) diretto da Robert Wiene. L’edizione italiana della Robin edizioni che ha recentemente messo a disposizione il romanzo di Janowitz lo ha intelligentemente accompagnato con un lungo saggio di Marco Catucci, un vero e proprio “album” da sfogliare che ricostruisce con immagini d’epoca e una sapiente scelta di testi a commento, la biografia dell’autore, i collegamenti con il cinema espressionista tedesco e con il mondo intellettuale del periodo, il contesto culturale e infine anche i rimandi letterati della sua opera: Poe, Dickens, Conan Doyle, Sterne. Il romanzo è un frenetico condensato di ironia e osservazioni acute, mescolate a una strizzata d’occhio al lettore con osservazioni metaletterarie e a una sana utopia pacifista (è ancora vivo il ricordo della Prima guerra mondiale). Rende bene l’idea della scrittura del libro una sola, lunga citazione: Lo zigano, che fino al 1914 con il suo violino aveva suonato qualcosa nelle orecchie del mondo, venne sostituito dal pallido strimpellatore dello stesso strumento, che si era aggirato per quattro anni nelle trincee della fabbrica internazionale di morte fratricida. Poi sopraggiunge il suo fratello pazzo, l’uomo della sincope e il violino della morte fu sostituito dal sassofono della vita, la tromba del carnefice dallo scalpiccio dei ballerini, la mitragliatrice dal tiptap. Un rinnovamento radicale de mondo realizzato attraverso una prospera follia! L’epoca aveva trovato il suo Offenbach. Si chiamava jazz. Questo era il termine con cui si esprimeva lo spirito di quel tempo, che aveva a suo modo preso a cuore l’insegnamento del nostro psichiatra pazzo, “Devi diventare Caligari”. Il mondo però non era diventato Galigari, ma jazz…(p.9). Il jazz è sicuramente stato lo spirito-folletto di un periodo e il sassofono ha portato un suono vitale, gioioso in un mondo che scricchiola e dove i segni del nazismo sono presenti (anche nel romanzo, con una capacità di previsione non indifferente per il 1927).